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VIOLAZIONE DELLE QUOTE ROSA. LA NOMINA DELLA GIUNTA E’ ILLEGITTIMA.

di Giuseppe Capone
03-04-2021

Il Sindaco di un Comune della Sardegna nominava assessore ai lavori pubblici un ingegnere in sostituzione dell'assessore donna dimissionaria. Tale provvedimento di nomina viene impugnato dall'associazione Amistantzia Donne Sarde del Centrosinistra e Fidapa Sardegna Federazione Italiana Donne Arti Professioni ed Affari, le quali lamentano la violazione dell'articolo 1, comma 137, della legge n. 56/2014, in tema di "quote rosa", oltre che di altre precise disposizioni normative (artt. 21 e 23 della Carta Europea dei diritti dell'Uomo, artt. 51, comma 1, 117 comma 7 e 114, comma 1 della Costituzione, art. 1 del d.lgs n. 118/2006, art. 1 del d.lgs n. 5/2010, Statuto comunale).

Le associazioni ricorrenti ritengono che il provvedimento di nomina è in contrasto con il principio di parità tra generi, affermato dal richiamato comma 137, che prevede quanto segue «Nelle Giunte dei Comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico». Ed infatti, nel Comune la Giunta comunale, formata da n. 7 componenti (n. 6 assessori più il Sindaco) non risulterebbe correttamente composta, dal momento che la percentuale del 40% sarebbe rispettata solo con la presenza in Giunta di almeno 3 donne, mentre con l'attuale composizione tale percentuale si attesta solo al 28,6%. Di conseguenza, considerata la presenza in giunta di due sole rappresentanti del genere femminile, la dimissionaria assessore doveva essere sostituita solo da un'altra donna e non da un rappresentante del genere maschile. Il Comune si costituisce in giudizio ed avanza una precisa e suggestiva eccezione di inammissibilità. Precisamente, il Comune sostiene che il ricorso non può essere neppure esaminato, in quanto diretto a sindacare il merito di un atto, quale quello di nomina, che ha natura politica. In altri termini, il Comune sostiene che il provvedimento di nomina della Giunta è un "atto politico"! L'eccezione è indubbiamente interessante e presenta suggestioni di ampia portata, seppur non pienamente condivisibili, in quanto "illumina e coglie" solo alcuni aspetti della realtà dell'istituto della nomina assessorile. Orbene, come noto, la dottrina prevalente ed anche la giurisprudenza (in dottrina Sandulli; Tar Lombardia, sez. Brescia, n. 98/1992), da tempo, definisce gli atti politici come segue: «Sono atti politici i provvedimenti che, per la loro causa obiettiva, attengono a superiori esigenze di ordine generale riferentisi alla direzione suprema dello stato nella sua unità e che hanno lo scopo di tutelare, in situazioni contingenti, gli interessi della collettività e le istituzioni fondamentali dello stato». Il fondamento normativo di questi atti viene individuato nell'articolo 31 del R.D. n. 1054/1924, il quale prevede l'inammissibilità del ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale avverso atti e provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico. Gli atti politici si distinguono dagli atti amministrativi per l'estrema libertà del fine, che li caratterizza. Infatti, per quanto ampia possa presentarsi la discrezionalità amministrativa della Pubblica amministrazione, quest'ultima sarà sempre vincolata dal necessario perseguimento delle finalità pubbliche, nonché nell'impossibilità di utilizzare un atto per fini diversi da quelli per i quali il potere stesso è stato concesso. Il deficit di tutela giurisdizionale, che caratterizza gli atti politici, viene, in parte, rimediato da un puntuale orientamento della giurisprudenza. Precisamente, occorre osservare che, negli ultimi anni, la giurisprudenza, per limitare la predetta carenza di tutela, ha optato per una rigorosa interpretazione restrittiva del concetto di atto politico (al punto che si è parlato di erosione degli atti politici), riconducendo i casi dubbi (es.: nomina dell'avvocato generale dello Stato o scioglimento di un'associazione politica) alla figura degli atti di alta amministrazione che sono sindacabili in sede giurisdizionale. Ad esempio, si è affermato che la manifestazione di interesse, relativa ad un progetto di housing sociale, non può rientrare tra gli atti politici, in quanto, pur provenendo da un organo di vertice del Comune, riguarda sul piano oggettivo la localizzazione di un intervento edilizio, ovverosia un atto rientrante nella competenza amministrativa dell'Ente. «Tale atto, quindi, per quanto abbia un ambito di discrezionalità amministrativa piuttosto ampia, riguardando anche il governo del territorio, è comunque soggetto all'obbligo di motivazione ed al normale regime di legittimità degli atti amministrativi, dovendo l'azione amministrativa sempre svolgersi in base ai principi di buona amministrazione, mediante scelte logiche e razionali, debitamente motivate» (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3609/2013). In altri termini, anche nell'ipotesi in cui la discrezionalità amministrativa si presenta come ampia, il sindacato del giudice amministrativo può censurare i profili di irragionevolezza, irrazionalità, arbitrarietà o travisamenti dei fatti e difetto di motivazione. Infatti, come rilevato da recente giurisprudenza (CdS, sez. IV, 1° settembre 2015, n. 4098), «nel nostro ordinamento, nessun potere, per quanto supportato da amplissima discrezionalità (con la esclusione, appunto, dei c.d. "atti politici", liberi nel fine) può essere esercitato omettendo di dare contezza (seppur generica e succinta, quanto maggiore è il quantum di discrezionalità attribuito) dei presupposti in base al quale si è giunti ad una data soluzione». Quindi, l'atto politico è «libero nell'individuazione dei fini da perseguire» e, proprio per tale ragione, si distingue dagli «atti di alta amministrazione». Questi costituiscono una speciale categoria di atti amministrativi, in grado di raccordare la funzione di governo con quella amministrativa. Sono, pertanto, manifestazioni d'impulso all'adozione di atti amministrativi funzionali all'attuazione dei fini della legge. Le caratteristiche fondamentali di tali atti sono la subordinazione alla legge ed il carattere ampiamente discrezionale. La natura duale della nomina assessorile. Chiarita la differenza fra atti politici ed atti di alta amministrazione, occorre evidenziare che, secondo una precisa dottrina, la nomina assessorile, a differenza della revoca, costituisce un atto politico. Infatti, viene osservato che l'articolo 46, comma 4, del d.lgs n. 267/2000, («il sindaco e il presidente della provincia possono revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio») ha procedimentalizzato e sottoposto a motivazione la revoca della nomina, configurandola come un atto di alta amministrazione (ex multis: «I provvedimenti di revoca dei componenti della giunta comunale, pur essendo atti amministrativi e non politici, hanno natura ampiamente discrezionale e la relativa motivazione può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico/amministrativa rimesse in via esclusiva al vertice dell'ente, in quanto aventi ad oggetto un incarico fiduciario. Di talché, la motivazione dell'atto di revoca può anche rimandare esclusivamente a valutazioni di opportunità politica», Tar Lombardia, sez. III, n. 1263/2014). Viceversa, per la nomina assessorile non esiste un'analoga previsione, per cui la medesima si qualificherebbe come atto politico proveniente dal capo dell'Amministrazione locale, libero nei fini e non soggetto a motivazione. In altri termini, secondo tale orientamento, la natura politica dell'atto di nomina precluderebbe così l'esistenza di situazioni giuridiche tutelabili a fronte del potere del Sindaco di scegliere i propri assessori. Trattasi di atti strettamente dipendenti da un accordo politico, preesistente tra le forze che compongono la maggioranza, in virtù del rapporto fiduciario bilaterale (tra Sindaco ed assessore, da un lato, e tra assessore e partito politico, dall'altro). Tale indirizzo conclude affermando che «E' difficile da immaginare che l'atto di nomina dell'assessore possa essere annullato in sede giurisdizionale, giusto ricorso da parte di un altro soggetto che, ad esempio, ritenesse di avere più titoli per l'incarico, e ciò proprio perché, a differenza della revoca, la nomina è un atto politico, per l'adozione del quale la legge non prescrive il possesso di specifici requisiti». Il merito precipuo della pronuncia in esame consiste nel suo approfondimento di tale tematica, che ci consente di cogliere la vera essenza dell'atto di nomina. Il Tar principia la sua analisi, evidenziando che l'indiscusso fatto che il Sindaco costituisca, grazie al voto popolare, diretta espressione del corpo elettorale non vale a rendere «l'atto di nomina un atto politico tout court e, tanto meno, lo sottrae alla garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale». Infatti, appare evidente che la nomina assessorile non realizza «scelte di specifico rilievo costituzionale e politico». Ancora, la nomina assessorile non contiene scelte programmatiche e non individua, affatto, i fini da perseguire nell'azione di governo, non ne determina il contenuto. Dunque, la nomina non può essere considerata un atto di indirizzo politico e neppure direttiva di vertice dell'attività amministrativa, cioè di direzione suprema della medesima. Invero, sussiste un elemento, che può trarre in inganno ed alimentare facili e pericolose suggestioni: il rapporto fiduciario, che lega i nominati assessori al nominante (Sindaco), il quale certamente gode della più ampia discrezionalità nella scelta delle persone dei suoi assessori. Ma, proprio per questo, è necessario addivenire ad una importante differenziazione. A ben vedere, l'atto di nomina si compone di due parti: una prima parte, caratterizzata da discrezionalità politica, e non amministrativa, relativa alle precise persone fisiche da nominare. Proprio perché il rapporto è fiduciario, l'individuazione delle predette persone fisiche non può che sfuggire dal sindacato giurisdizionale. Ma, vi è anche una seconda parte: al di là della scelta delle persone fisiche (Caio al posto di Tizio, o viceversa), sussistono dei limiti, che non attengono, appunto, all'individuazione delle persone, ma al rispetto di talune regole supreme, di taluni principi superiori, che non possono essere denegati. Uno di tali principi è quello di parità fra i generi, di cui all'articolo 51 Cost., avente valore di norma immediatamente cogente e vincolante, come tale idonea a conformare ed indirizzare lo svolgimento della discrezionalità amministrativa, ponendosi rispetto ad essa quale parametro di legittimità sostanziale. Soprattutto, al comma 1, dopo aver sancito la totale eguaglianza fra i sessi, pone un importante monito di azione al Legislatore: «A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». Tale monito è stato accolto dal già citato comma 137, dell'articolo 1, l. n. 56/14, che impone un limite minimo: «Nelle Giunte dei Comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico». Tale limite deve essere rispettato e, conseguentemente, vincola il provvedimento di nomina, che sotto tale aspetto presenta le vestigia di un atto amministrativo, seppur di alta amministrazione. In altri termini, il Sindaco del Comune sardo aveva la "libertà politica" di scegliere un assessore, ma questi doveva essere una donna: non importa chi, ma una donna! Pertanto, il Tar Sardegna, accogliendo il ricorso, statuisce che la nomina assessorile dà luogo ad «un atto soggettivamente e oggettivamente amministrativo, l'emanazione del quale è sottoposta all'osservanza delle disposizioni che attribuiscono, disciplinano e conformano il relativo potere, il cui corretto esercizio è, sotto questi profili, pienamente sindacabile in sede giurisdizionale».

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Giuseppe Capone

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